Biciclette e turismo all’alba della Grande Guerra

Tra i documenti conservati al Museo Fisogni è possibile trovare un vecchio libretto, che così descrive la bicicletta: “consideratela come una signora a cui bisogna fare la corte, ed usare le più delicate attenzioni, i più squisiti riguardi”; di che cosa si tratta? Beh, la storia comincia da lontano…

Era l’8 novembre 1894 quando 57 ciclisti milanesi decidevano di fondare il Touring Club Italiano; scopo principale del TCI (all’epoca TCCI, Touring Club Ciclistico Italiano), era la diffusione della bicicletta, il nuovo mezzo di trasporto che, alla portata di tutti, prometteva di favorire lo sviluppo di un moderno turismo. Attraverso un capillare sistema di rappresentanti, alberghi e strutture convenzionate, il Touring si diffuse velocemente in tutta Italia, aprendosi presto anche al nascente mondo dell’automobile (nel 1905 contribuirà alla nascita dell’ACI).

L’esperienza, tuttavia, non fu peculiare dell’Italia, e numerosi Touring Club e associazioni sorsero nei principali Paesi europei, ognuno con la sua rete di servizi e strutture convenzionate, con i quali il TCI stipulò talvolta trattati e accordi.

Un’importante testimonianza della storia del Touring e del ciclismo europeo ci viene appunto dall’archivio del Museo Fisogni di Tradate (VA); dedicato alla stazione di servizio, il Museo detiene il Guinness dei Primati per la più grande collezione al mondo di pompe di benzina antiche, ma la sua raccolta, ben lungi dall’essere incentrata solamente sui motori, spazia in campi ben più ampi che toccano anche gli pneumatici, il design, la tecnica e, ovviamente, il ciclismo. E’ proprio tra i documenti conservati al Fisogni che si trova il famoso libretto, un vecchio annuale del Touring del 1901, dal quale è possibile ricavare un’immagine fedele e precisa di quella che era la diffusione della bicicletta agli inizi del secolo scorso.

Innanzitutto, bisogna dire che i dati riportati dalla piccola guida hanno sempre una finalità strettamente legata al turismo; “è stato detto” spiega il testo “che il turismo è la cavalleria medioevale rimodernata. Certo, ha su quella un grande, un grandissimo vantaggio. Mentre la cavalleria era ristretta ai signori […] oggi il ciclismo, il turismo sono da tutti e per tutti”. A differenza del passato, dunque, nel 1901 la bicicletta, simile a un moderno destriero, appare come il mezzo del futuro, di facile utilizzo e accessibile a tutti. Non per niente, a marzo 1901 il TCI conta già ben 23.000 soci.

Quale era, però, la sua considerazione all’estero? Il piccolo annuario ci fornisce una risposta, riportando dati e caratteristiche dei vari Club e associazioni presenti in territorio europeo. Un’Europa, va detto, molto diversa da quella di oggi, ancora immersa nella cosiddetta “Bell’Epoque”, inconsapevole dell’immane disastro che, di lì a 13 anni, si sarebbe scatenato con l’inizio della Prima Guerra Mondiale.

Il primo Paese preso in considerazione è quello che sarebbe diventato il grande nemico dell’Italia, l’Austria-Ungheria. Il Touring Club Austriaco, dice il testo, “si propone lo sviluppo del turismo in generale, e più particolarmente del turismo velocipedistico, la diffusione del ciclismo in Austria e la sua utilizzazione”, sia da un punto di vista “civile”, sia (profetica precisazione!) “militare”. Fondato nel 1897, il Touring Club locale conta 6000 soci (relativamente pochi, rispetto ai 23.000 italiani), collabora con la Pubblica Amministrazione per favorire la diffusione del turismo e, come l’omologo italiano, ha contribuito allo sviluppo della viabilità con la realizzazione dei primi segnali stradali.

Più strettamente legate al ciclismo sono altre associazioni come l’Unione delle società dei ciclisti tedeschi, la Società Magiara i Velocipedisti (per l’Ungheria) e l’Unione Velocipedistica Ceca (all’epoca l’odierna Repubblica Ceca era parte dell’Impero), tutte con lo scopo di “promuovere e favorire” lo sviluppo del ciclismo, sempre in chiave turistica. L’associazione ceca, inoltre “dirige e personifica il ciclismo sportivo del popolo Czeco”, con un’attenzione quindi anche all’aspetto agonistico, che pare presente anche nella controparte ungherese. Da un punto di vista doganale, l’Impero asburgico pare abbastanza elastico per il transito dei ciclisti: pagata una tassa da 25 fiorini, “il Ciclista può uscire e rientrare liberamente per tutta la durata” del soggiorno in Austria.

Non molto diversa è la situazione del Belgio, patria dal 1892 della Liegi-Bastone-Liegi; il club locale conta ben 18.000 soci sparsi in tutto il Regno, con una grande concentrazione a Bruxelles. Anche qui inizia a farsi largo un certo interesse per le competizioni ciclistiche, che vengono disciplinate dalla locale Lega Velocipedistica Belga. Più attenta al turismo invece la Danimarca che, al fine di “estendere all’estero la conoscenza del Paese”, non impone “alcun dazio sui velocipedi dei turisti”. Analoghe organizzazioni sono diffuse anche in Lussemburgo (quasi 1800 soci) , in Olanda (20.000 soci) e persino in Norvegia, all’epoca ancora possedimento svedese. Proprio la Svezia conta una delle associazioni più numerose, circa 25.000 iscritti, la quale cerca di “estendere all’estero la conoscenza delle bellezze naturali della Svezia per indurre i forestieri a visitarle”; inoltre, se la bicicletta è importata “per uso personale e temporaneo, non per la vendita”, è esente da tasse doganali.

Assai meno sviluppata è invece la situazione nell’est Europa, ancora in gran parte sotto il dominio ottomano, e in Bulgaria e Rumelia (la zona tra Bulgaria meridionale e Albania) non esiste neppure “alcun regolamento” di circolazione stradale, né per le biciclette né, tantomeno, per le rarissime automobili. Situazione simile anche nel Regno di Grecia, dove la vita del turista non appare molto facile, al punto che “una considerevole parte della somma depositata [alla dogana] viene assorbita nel pagamento di mancie, ecc., ed […] è molto difficile ottenere il rimborso anche di una parte del deposito”. Parzialmente migliore è la situazione della Romania, dove esiste perlomeno un chiaro regolamento di circolazione stradale.

Se nei possedimenti balcanici le cose non sembrano andar bene, la situazione appare quasi disastrosa nel resto dell’Impero Ottomano: in Turchia non solo non esiste un club di riferimento e non ci sono norme di circolazione, ma “all’infuori di Costantinopoli […] le strade sono impraticabili anche ai velocipedi e non sempre sicure”.

Il Touring Club francese risulta invece uno dei più grandi e organizzati, con ben 72.000 soci e una viva attenzione per la diffusione del mezzo, non solo in campo civile ma anche (e la cosa non sorprende) militare. Tra i soci, si contano “28 Ministri, 178 Ambasciatori, Senatori e Deputati, 50 Membri del Consiglio di Stato, 562 Generali ed Ufficiali Superiori”; un club, dunque, diffuso in tutte le classi sociali, che pare avere assunto anche un’importanza politica e militare oltre a quella turistica ufficialmente dichiarata. Diffuso pure nelle colonie, il TCF è attivissimo in tutti i campi, dalla collaborazione con la PA allo studio di norme e tariffe, dalla realizzazione di cartelli alla manutenzione delle strade, dall’organizzazione di escursioni all’esame di progetti e invenzioni.

Tra le principali associazioni locali vi è anche la Union Vélocipédique de France, particolarmente attenta alla tutela degli interessi dei ciclisti e allo sviluppo di “relazioni amichevoli”. Da un punto di vista sportivo, bisognerà attendere ancora due anni per il primo Tour de France, ma non va dimenticato che proprio la Francia fu la patria, nel 1868, della prima gara ciclistica nella storia, e che già si correvano la Parigi-Bruxelles e la Parigi-Roubaix. Da un punto di vista doganale, invece, è interessante la convenzione stipulata tra il TCF e il TCI, che esclude i membri del club italiano dall’obbligo di versare un deposito cauzionale, limitandosi al pagamento di un permesso di circolazione valido per 3 mesi.

Ben diffuso è anche il Touring Club Ciclistico Inglese, con i suoi 56.000 soci, il cui scopo è di “incoraggiare e facilitare il turismo – specialmente i viaggi ciclistici – in ogni parte del mondo”. Si tratta, per la verità, della “più antica e potente federazione” europea, fondata addirittura nel 1878, con un capitale pari a ben 350.000 lire (una cifra considerevole nel 1901!). Come gli altri club, anche quello britannico edita pubblicazioni e può contare su una fitta rete di rapporti e convenzioni con varie strutture inglesi. In Gran Bretagna, patria del liberismo economico, non è previsto “nessun dazio, né formalità doganali”.

Più piccolo (12.000 soci), ma non per questo meno vitale, è il Touring Club dell’Impero Tedesco, anch’esso votato allo sviluppo del ciclismo turistico. Tra le attività del club, vi è anche l’organizzazione di “esposizioni turistiche […] premi e onorificenze per incoraggiare lo sviluppo del turismo e dello sport in genere”. L’Unione Velocipedistica Germanica, invece, si occupa, oltre che di “promuovere e proteggere il turismo […] di organizzare riunioni sportive, corse, giuochi, tornei”. Importante nel Paese è anche il Touring Club Tedesco di Monaco, indipendente dal Club nazionale, con oltre 3000 soci. Attraversando la dogana, è previsto un pagamento di 24 marchi per ogni 100 kg, evitabile tuttavia qualora si dimostri che il mezzo serva “soltanto ad uso privato e personale del turista”. In Germania, però, non esiste un chiaro regolamento per la circolazione di velocipedi ed automobili, e solo alcune regioni e città sono provviste di regole precise.

Sembra solida anche la situazione della Svizzera, il cui Touring Club conta 5600 soci ed è particolarmente attento a turismo ed escursioni, oltre alle “corse propriamente dette”. Ben sviluppati anche i regolamenti stradali, sebbene differiscano da cantone a cantone.

Assai arretrata è invece la situazione della penisola Iberica, con il Portogallo e la Spagna che risultano privi di un club ufficiale, anche se esiste qualche regola di circolazione a livello nazionale o almeno locale.

Ultimo grande paese di cui ci occupiamo è l’Impero Russo: nella terra dello Zar, il locale Touring Club vive una situazione assai complicata, sia da un punto di vista materiale che politico. “Il T.C.R. si propone la propagazione del ciclismo e del turismo, specialmente dal punto di vista pratico”, ma deve fare i conti con “le disposizioni restrittive di polizia che ne intralciano i progressi”, al punto che gli aderenti risultano essere solo 1500, addirittura meno del Lussemburgo. Per il turista straniero le cose non vanno meglio e, se il deposito in dogana è temporaneo, “possono passare dei mesi prima che la somma venga rifusa”. Regolamenti speciali vigono poi in determinate regioni dell’Impero, come la Finlandia o la Polonia. Ciononostante, la situazione in Russia è attiva e vivace, ed esistono nel Paese diverse altre associazioni ciclistiche, tra le quali l’Unione Ciclistica Russa, che si occupa soprattutto dell’aspetto sportivo e agonistico.

Dall’esame di questo documento del Museo Fisogni emerge quindi un quadro tutt’altro che omogeneo, con situazioni particolarmente solide e strutturate in alcune delle cosiddette “Grandi Potenze”, come la Francia, la Gran Bretagna o la Germania, e meno avanzate in altri Paesi; l’analisi ci restituisce però una comune tendenza europea alla diffusione del mezzo ciclistico, sia da un punto di vista sportivo che, soprattutto, turistico; si intravede già, però, l’intuizione dell’importanza della bicicletta anche in ambito militare, con la Prima Guerra Mondiale che segnerà il tragico “battesimo del fuoco” della due ruote in campo bellico.

Marco Mocchetti

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